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Un capo che non sa fare il leader e indicare la direzione (e si lamenta)

Si tratta di un’azienda in buona salute sul profilo finanziario ed economico, nata negli anni ’70, cresciuta negli anni e tutt’ora governata dal fondatore.

Il problema che mi espone il CEO è che i reparti non collaborano tra di loro, i manager “non hanno le palle”, sono poco dinamici, per niente propositivi e scarsi nel problem solving. E’ sempre il proprietario/fondatore a dover spronare e indicare la strada.

Decido di non affrontare la questione con lui; avrei potuto porgli alcune domande per saggiare i suoi pregiudizi e provare a spostarlo dal suo punto di vista così arbitrario e giudicante, ma scelgo di rimandare questa conversazione in un secondo tempo.

Propongo come primo intervento l’organizzazione di un focus group con i responsabili dei reparti.

Il proprietario vorrebbe partecipare, ma con fatica lo convinco a starne fuori. I manager, con lui presente, non esprimerebbero liberamente le loro opinioni.

Con altrettanta fatica lo convinco a consentire una durata di 2 ore per la discussione (nelle quali i responsabili non avrebbero lavorato!), tempo minimo per me, per creare un clima disteso e capire qualcosa, ma giudicato da lui un’assenza dal lavoro troppo lunga e onerosa.

Il focus group viene organizzato in una sala riunioni, a porte chiuse. Dopo un primo giro di presentazioni e una breve introduzione, passo subito alla prima fase creativa. A dir la verità temevo una certa resistenza perché a volte i manager fanno fatica ad uscire dal ruolo.

Ciascuno deve descrivere un paesaggio che rappresenta il suo vissuto in azienda.

Emergono diverse visioni: Venezia con i suoi ponti, delle isole, un paesaggio desolato con qualche casa qui e là, un paesaggio sottomarino o un paesaggio senza orizzonte, grattacieli.

Già questo primo passaggio è illuminante per chiarirmi le idee. Soprattutto sono sorpresa dalla velocità con cui mi viene chiarita, anche se implicitamente e indirettamente, la situazione; recepisco l’urgenza da parte dei manager di denunciare una sofferenza.

Le immagini che mi restituiscono fanno parte di una simbolica piuttosto trasparente: mancanza di coesione, la percezione di un’azienda che è una solo di nome ma che di fatto si compone di team separati che hanno una comunicazione labile e sporadica tra loro.

Si apre lo scambio verbale e la segnalazione è univoca: manca la comunicazione interna, che rappresenta uno strumento per aggregare, fare squadra, far sentire tutti parte dello stessa ‘casa’ e con lo stesso obiettivo.

Ma perché? La risposta è banale ma quanto mai cruciale: mancano le occasioni, non sono previste riunioni e momenti aggregativi durante l’anno in cui la proprietà parli con tutta l’azienda e i colleghi possano incontrarsi.

A questo punto passiamo alla seconda fase creativa: divisi in due gruppi, ritagliando immagini da riviste, devono comporre un grande collage che racconti l’azienda e il loro rapporto con essa.

Poi ogni elaborato viene presentato e illustrato nel dettaglio.

Questo secondo esercizio è stato sufficiente per chiarirmi la situazione e capire dove si annidano le difficoltà.

Le immagini (i significanti) che vengono selezionate nei collage, codificate nei significati, forniscono un’idea articolata del racconto dell’azienda e dei suoi portati valoriali.

In nessuno dei due collage compaiono riferimenti iconici ad una mission o ad una vision del gruppo industriale.

Sono assenti rappresentazioni di un sistema valoriale comune e di un obiettivo condiviso.

La narrazione emersa è fatta solo di lavoro, di vissuto individuale e solitario.

Alcune domande ‘potenti’ e un passaggio interlocutorio, proprio delle tecniche del coaching, sulla visione del futuro mi chiariscono quello che sarà la risposta che darò al CEO dell’azienda.

Nella situazione presente ogni team autonomamente si pone dei micro-traguardi ma si sente forte l’assenza di indicazione di una strada comune, di un disegno complessivo, di una visione.

In effetti non aver chiaro un macro-obiettivo aziendale li rende insicuri, incerti sui passi da fare e anche sullo stile manageriale da assumere e quindi la risposta è restare dipendenti dal proprietario/fondatore e rinviare a lui le decisioni. Analogamente la demotivazione che segue allo scarsa coesione e intenzionalità fa sì che non si dimostrino propositivi.

La ‘disabitudine’ a pensare valorialmente il lavoro – che viene da un’impostazione prettamente pragmatica della proprietà - , è la chiave che spiega la situazione ed è anche l’innesco per il cambiamento auspicato.

E’ necessario che la proprietà sancisca degli obiettivi e dei valori base che la guidano, per offrire la possibilità ai dipendenti di farsi coesi intorno ad essi.

La condivisione passa attraverso una comunicazione costante e momenti aggregativi.

Solo questo può generare intenzionalità, maggior coinvolgimento e propositività.

Una nuova abitudine alla comunicazione genererà coinvolgimento e spirito di appartenenza e quindi una maggiore intenzionalità.

Condividere l’obiettivo e alcuni valori sottesi è cruciale per motivare chi lavora e per creare spirito di squadra.

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